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Le metodologie autobiografiche: l’uso della narrazione in terapia

La memoria è la capacità di un organismo vivente di conservare tracce della propria esperienza passata e di servirsene per relazionarsi al mondo e agli eventi futuri (Galimberti). Siamo ciò che ricordiamo di essere stati, siamo custoditi dalla nostra memoria. Per S. Agostino conoscere significa ricordare, la memoria dell’uomo custodisce le nozioni elementari e i principi delle scienze. Il tempo esiste solo in quanto sistema soggettivo di rilevazione che colloca in successione gli eventi: prima il passato attraverso la memoria poi il presente attraverso l’attenzione ed in fine il futuro attraverso l’attesa. Il tempo quindi è una dimensione soggettiva e la memoria è una delle sue componenti. La memoria ha anche il compito di ristabilire il legame tra passato, presente e futuro e conserva immagini che servono al presente e sono significative per la continuità della nostra vita.

Ecco perché nell'era delle banche dati dove tutto si conserva sembra di vivere in un eterno presente, passato e futuro si appiattiscono in una unica dimensione quasi sconfortante, lontana dalla tendenza dell'uomo di vivere in una storia con il suo passato e il suo futuro. La memoria e l'oblio sono essenziali, nel raccontare e raccontarsi, concedono la possibilità di divenire e poter essere sé stessi acquisendo senso nella propria storia. Narrare rappresenta l’unico modo che l’essere umano possiede per far conoscere un accaduto o la propria storia. Non è possibile, infatti, presentarsi al mondo se non narrandosi.

Il lavoro autobiografico riesce a dare forma alla propria storia personale. Non si tratta di conoscere tecniche o stili narrativi, il tentativo è piuttosto quello di recuperare uno spazio per rievocare frammenti, ricordi ed esperienze, riappropriarsi del proprio passato, lontano e recente, per avere la possibilità di affrontare il futuro con uno spirito più forte e consapevole.

Narrare deriva da (g)narus, esperto, raccontare, esporre un fatto seguendo un determinato ordine nella rievocazione (Telfner). La memoria è alla base di quell'attività inesausta che è la narrazione, da sempre gli uomini narrano e ascoltano storie. Le persone conferiscono senso alla propria vita attraverso il racconto delle proprie esperienza, l'atto del narrare consente di creare una versione della propria vita, di contestualizzare il significato dell'esperienza per costruire versioni diverse della stessa storia di fronte a cambiamenti di vita o eventi traumatici.

Fin da bambini, per poter spiegare ciò che avviene e poter avere l'illusione di controllare gli accadimenti, organizziamo/semplifichiamo/costruiamo la nostra esperienza di storie (Bruner). Ciascuno si porta dietro la propria storia/identità scrivendone la trama in avanti e riscrivendola a ritroso con maggiore o minore flessibilità. Noi abbiamo una nascita che è determinata dall’atto di procreazione dei nostri genitori. Ma poi c’è un’altra nascita che non è quella recepita dall’esterno e che è precisamente la nascita che noi ci diamo da noi stessi raccontando la nostra storia (Gargani).

Lo psicologo Pennebaker ha verificato che una tecnica narrativa può diventare un intervento psicologico che permette di controllare gli effetti emotivi degli eventi personali per poterli poi archiviare. L'autore sostiene che utilizzare l'autobiografia come strumento di cura migliora lo stato di salute fisica, oltre che mentale, dei soggetti.

La concezione di cura più vicina a quella che si può realizzare attraverso le metodologie autobiografiche è descritta egregiamente nel dizionario di psicologia di Galimberti, ovvero cura iscritta non nella categoria di guarigione, ma in quello di senso dell'esistenza, che ha delle analogie con la nozione Heideggeriana di cura come ‘sorge’ che caratterizza la relazione con l'altro di cui ci si può prendere cura, o nella forma del ‘besorgen’ che non si cura tanto dell'altro quanto delle cose da procurare loro, o in quella autentica del ‘fursorgen’ che apre agli altri la possibilità di trovare sé stessi offrendo le condizioni per potersi prendere cura di sé.

Un percorso di cura nasce dalla relazione che si instaura tra i soggetti interessati dalla storia, percorso che apre allo psicoterapeuta la dimensione di un agire orientato (Piussi) aperto allo stupore di quanto può accadere all'interno della relazione con il paziente e di quello che si può scoprire. Attraverso la relazione chi narra è sollecitato a percorrere un viaggio alla ricerca di sé, ad esplorare spazi, a dare loro forma e profondità, a lasciarsi interrogare, ad interagire, ricercando in sé le esperienze da comunicare.

Lo psicoterapeuta ha una funzione di specchio riflettente per chi narra, gli consente di assumere un punto di vista su di sé, per guardarsi, rileggersi, riascoltarsi e riconoscersi nella propria soggettività o nelle proprie finzioni, attraverso le parole che catturate restituiscono il tempo, ricompongono un'identità. Una persona attraverso il racconto ricapitola la propria vita in forma di storia, anche il passato viene ri-narrato e trova una coerenza interna. Nell’attività del narrarsi c’è il fulcro del processo terapeutico, l’uomo costruisce e ricostruisce i propri mondi interni narrandoli, ridefinendo la propria identità.

La terapia è come un racconto, come un romanzo, come un’opera d’arte, come scrive Hillman “la terapia ridà storia alla vita”. Erving Polster suggerisce che la vita di ogni persona può essere vista come un romanzo: la scoperta di tale analogia sarebbe di per sé terapeutica. All’interno del setting terapeutico si produce una storia di cui terapeuta e paziente ne sono i co-narratori.

Grazie al pensiero narrativo l’uomo organizza, elabora e narra la realtà e l'esperienza di sé, nel corso della vita tutti raccontiamo noi stessi attraverso storie che rappresentano dei veri e propri atti narrativi, questo non nasce solo dall’esigenza di raccontarci a qualcuno altro ma anche dalla necessità di dare un senso a ciò che ci accade, collegare i diversi eventi che costellano la nostra esistenza lungo una dimensione sia temporale che spaziale. Abbiamo bisogno di raccontarci a noi stessi per dare forma alla nostra identità. Narrarsi è quindi soprattutto un atto di consapevolezza perché costruisce una propria visione di sé e del mondo: sono io come narratore che, nel momento in cui racconto qualcosa, opero una selezione, un’organizzazione del materiale disponibile.

All’interno della relazione psicoterapeutica si viene a creare la polarità narratore-ascoltatore caratteristica della narrazione, tale polarità necessita dell’intenzionalità di entrambi per dar vita ad una costruzione narrativa che li coinvolga in quanto attori della relazione. Per tutto il percorso della terapia si lavora sulle realtà narrative create, al terapeuta non interessa se quelle realtà siano realmente accadute ciò che è importante è la ricostruzione che il paziente fa di ciò che è avvenuto. Nel momento in cui si racconta qualcosa che appartiene al proprio passato lo si ricostruisce, e si crea una distanza dall’evento accaduto che permette la costruzione di un nuovo significato, un nuovo sentire, una nuova versione.

Ricostruire una storia diventa rimodellare parti di sé, rappresentazioni della propria identità e del proprio contesto sociale, significa dare origine ad un racconto nuovo che, in quanto condiviso, crea un confronto all’interno del quale il terapeuta si muove verso un obiettivo: facilitare la persona nell’assunzione di responsabilità, aiutarla a rischiare prendendo strade diverse, cambiare un copione di vita che si ripeteva sempre nello stesso modo, riscrivere un finale. Ovviamente non sarà il terapeuta a proporre una storia diversa, egli fornirà solo degli stimoli diversi, offrirà punti di vista alternativi, magari più nascosti, o secondari che aiuteranno il paziente a riorganizzazione il suo campo narrativo della storia.

Ciascun essere umano è il romanziere di sé stesso e benché possa scegliere se essere uno scrittore originale o un plagio, non può evitare di scegliere. E' condannato alla liberà. (Ortega y Gasset).