La comunicazione interculturale è una forma di dialogo tra culture diverse.
Grazie alla globalizzazione e all’avvento del web, della posta elettronica e dei social network negli ultimi anni riuscire a comunicare tra culture differenti è diventato sempre più necessario.
Spesso quando si parla di interculturalità si parla anche di multietnicità poiché nelle grandi città convivono soggetti provenienti da paesi molto diversi e molto lontani tra loro. Saper valutare cosa sia formale o amichevole, aggressivo o cortese, utile o superfluo in una comunicazione con persone di lingua e cultura differente dalla nostra è oggi diventato un problema sempre più assillante soprattutto per chi è a contatto giornalmente con persone di diverse culture, come per esempio gli insegnanti, i manager, gli accademici, i professionisti e i diplomatici.
Cerchiamo di capire quali elementi entrano in gioco nella comunicazione fra interlocutori appartenenti a culture diverse e quali sono le principali fonti di errore che possono generare ostacoli a una corretta comunicazione fino a farla fallire!
Le barriere nella comunicazione interculturale possono erigersi o per via delle aspettative degli interlocutori o per le differenze che li contraddistinguono. Per aspettative si intende sia ciò che noi ci attendiamo dall’interlocutore, sia ciò che costui si aspetta da noi. Le differenze possono riguardare sia le credenze (visione del mondo, valori, norme), sia l’affettività (modi e livelli di intensità nell’espressione delle emozioni), sia i comportamenti tipici (stili comunicativi, abitudini).
Per superare queste difficoltà comunicative sono necessarie la volontà di prestare attenzione all’interlocutore e la fiducia di costruire un buon rapporto, oltre all’accettazione della diversità che l’altro rappresenta.
Gli stereotipi e i pregiudizi possono rappresentare veri e propri ostacoli alla comunicazione, soprattutto perché interferendo con la capacità di cogliere l’individualità dell’interlocutore rendono arduo l’instaurarsi un rapporto di fiducia.
Molti fraintendimenti ed interpretazioni errate sono originati da differenze culturali:
• falso consenso: si tende ad assumere implicitamente che anche gli altri farebbero le nostre stesse scelte e valuterebbero le cose come noi e che risposte alternative siano alquanto insolite o inappropriate (Ross L., Greene D. & House, P., The false consensus effect: an egocentric bias in social perception and attribution processes. Journal of Experimental Social Psychology, 1977);
• attribuzioni causali: nelle culture individualiste le persone tendono ad attribuire la causa degli eventi a fattori disposizionali individuali, mentre in quelle collettiviste si predilige una spiegazione situazionale degli accadimenti (Morris, M. W. & Peng, K., Culture and cause: American and Chinese attributions for social and physical events. Journal of Personality and Social Psychology, 1994);
• interpretazione del silenzio: diversa nelle culture, ad esempio nella nostra genera spesso imbarazzo e si cerca di riempirlo in qualche modo, mentre nelle culture orientali è valorizzato in quanto tale, quindi non soppresso;
• stili comunicativi: che possono essere ad alto e basso contesto. La comunicazione ad alto contesto è quella in cui la maggior parte delle informazioni sono fornite dal contesto, per cui solo poche di esse sono comunicate esplicitamente. Nella comunicazione a basso contesto, invece, la maggior parte delle informazioni sono acquisite attraverso la comunicazione verbale. (Hall E.T., La dimensione nascosta, 1968). La comunicazione ad alto contesto prevale nelle culture collettiviste, soprattutto in Cina, Giappone e Corea, mentre quella a basso contesto è più facilmente riscontrabile in quelle individualiste, ad esempio, in Svizzera, Germania, Nord America e Scandinavia. Le culture francese, svizzera e italiana adottano entrambe le modalità comunicative.
Secondo Hofstede (Cultures and Organisations: Software of the Mind, 1991) l’acquisizione delle abilità di comunicazione interculturale passa attraverso tre fasi:
• consapevolezza: riconoscere che ciascuno porta con sé un particolare software mentale che deriva dal modo in cui è cresciuto, e che coloro che sono cresciuti in altre condizioni hanno, per le stesse ottime ragioni, un diverso software mentale;
• conoscenza: se dobbiamo interagire con altre culture, dobbiamo imparare come sono queste culture, quali sono i loro simboli, i loro eroi, i loro riti;
• abilità: deriva dalla consapevolezza, dalla conoscenza e dall’esperienza personale.
Gli elementi di conoscenza partono sicuramente dalla acquisizione della lingua che costituisce un modo per “accorciare le distanze” e per dimostrare interesse e rispetto verso l’altro, per poi passare alla conoscenza non stereotipata di valori e tradizioni.
Un’attenzione particolare della comunicazione è fornita al linguaggio non verbale, quella che Edward Hall (2002) chiama la “dimensione nascosta”. Secondo questo autore, gli esseri umani sono guidati da due forme di informazioni alle quali si può accedere in due modi diversi: quello della cultura manifesta, che viene appreso tramite le parole e i numeri; e quello della cultura tacitamente acquisita, che non è verbale ma altamente situazionale e opera secondo regole che vengono acquisite durante il processo di crescita o quando ci si trova in ambienti diversi.
Il secondo tipo di informazione è quello che rende complessa la comunicazione tra differenti culture.
Paolo E. Balboni scrive un libro molto interessante sulla comunicazione interculturale: “Parole comuni, culture diverse. Guida alla comunicazione interculturale” (Marsilio, 1999), in cui spiega, attraverso l’analisi di situazioni precise, i criteri e i modelli di una “competenza comunicativa”.
Secondo l’autore anche se persone provenienti da diversi paesi parlano correntemente l’italiano, per esempio, per cui la comunicazione elementare è garantita, non bisogna dimenticare che ogni persona sul piano concettuale, continua a pensare secondo le proprie regole e categorie culturali e sul piano comunicativo, assume la grammatica e il lessico della lingua italiana ma conserva i propri codici extra-linguistici: gestualità, distanza interpersonale, simboli di status e di gerarchia, ecc., che vengono percepito come universali, mentre cambiano in ogni cultura.
La lingua non è solo pronuncia, lessico e grammatica, ma è una realtà ben più complessa e legata a fattori culturali, per cui un gesto o un vestito possono contraddire quanto detto dalla lingua, possono deviare l’attenzione dell’interlocutore da quello che viene detto al modo in cui lo si dice, possono creare momenti di tensione e anche errori irreparabili.
Gli esseri umani comunicano con il loro corpo, con oggetti, oltre che con la lingua. Spesso si crede che la comunicazione linguistica sia tutta la comunicazione, tuttavia, l’83% delle informazioni che raggiungono la nostra corteccia cerebrale passa attraverso gli occhi, mentre solo 11% giunge dall’orecchio.
Siamo dunque più, molto più “visti” che “ascoltati”, e molto spesso è solo dopo aver deciso, sulla base di quel che si vede (aspetto, vestiario, ecc.) di una persona che si decide se ascoltarla o no.
Tutti gli animali vivono in una sorta di bolla virtuale che rappresenta la loro intimità e che ha il raggio della distanza di sicurezza, cioè quella che consente di difendersi da un attacco o di iniziare una fuga. Negli uomini, essa è data dalla distanza del braccio teso (circa 60 cm.).
La “bolla” è un dato di natura, mentre da sua dimensione e il suo valore di intimità variano da cultura a cultura: l’infrazione alle regole della distanza interpersonale, può generare una crisi comunicativa.
Per chi ha bisogno di una distanza interpersonale maggiore può risultare aggressivo e invasivo chi si avvicina troppo anche se nelle intenzioni di quest’ultimo c’era tutt’altro. Ad esempio le culture nord-mediterranee ritengono che la giusta distanza sia quella di un braccio teso, una maggiore vicinanza provoca disagio, invece nel Mediterraneo arabo spesso chi parla tocca l’interlocutore sul petto o sul braccio. Al capo opposto troviamo gli europei non mediterranei e gli americani che richiedono che ciascuna “bolla” sia rispettata, per cui i due interlocutori restano a distanza di un doppio braccio.
Se queste indicazioni non vengono rispettate si creano delle vere e proprie crisi di incomprensione.
Si rende quindi necessario uno studio approfondito delle realtà “altre” rispetto alla nostra, prendendo in considerazione non solo le diversità linguistiche ma anche quelle culturali, religiose, economiche, spirituali, ecc. e riflettendo sul fatto che parlare un’altra lingua non significa tradurre il significato di un discorso, ma arrivare veramente a pensare secondo i parametri di un’altra cultura.
Per fare questo bisogna tendere a una maggiore sensibilizzazione ai problemi legati ai rapporti interculturali e una formazione alla tolleranza delle diversità; creare un clima di dialogo e di apertura, che porti al confronto e all’arricchimento reciproco. Solo in questo senso può essere intesa una reale globalizzazione della cultura.
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