La paura di essere felici ha un impatto significativo sulla vita delle persone che lo sperimentano: chi ne è affetto tende ad evitare o sabotare situazioni, relazioni o attività che potrebbero portare alla propria felicità. Questa paura potrebbe essere identificata come una forma di auto-distruttività: le persone evitano la felicità perché credono di non meritarla o addirittura che potrebbe portargli conseguenze negative. Le possibili cause possono essere molteplici, la paura di essere felici è piuttosto diffusa, tanto quanto la ricerca della felicità. Braun scrive: ogni essere umano, indipendentemente dalla cultura, dall'età, dal livello di istruzione o dal grado di sviluppo fisico e mentale, vuole essere felice. È il fine comune a cui tutti gli esseri umani. Va però detto che ci sono anche differenze culturali e mentre in quelle occidentali la felicità è uno dei valori più importanti che guidano la vita degli individui non è lo stesso per quelle orientali.
Con la globalizzazione le persone in tutto il mondo stanno diventando sempre più ossessionate dalla loro felicità personale e dal loro benessere soggettivo, ed ecco perché la psicologia e le scienze sociali si sono molto interessate al tema.
Forse la prima differenza che possiamo fare è tra le culture individualistiche e quelle collettivistiche: in questo senso mentre gli occidentali sentono una forte pressione per raggiungere ed esprimere la felicità personale, gli asiatici orientali tendono a sentire una certa pressione per l’appartenenza ovvero per realizzare e sperimentare l'armonia sociale, quindi la loro vita è guidata più dalla necessità di avere buoni rapporti interpersonali, che dalla necessità di essere felici.
Alcuni studi realizzati in 13 nazioni, la maggioranza non occidentali, hanno dimostrato che la paura della felicità è un costrutto esistente legato alle conseguenze negative che possono seguire un momento felice. Si diventa contrari alla felicità perché le cose brutte, come l'infelicità, la sofferenza e la morte, tendono ad accadere alle persone felici, quindi la preferenza va a mantenere uno stato emotivo neutro e all’evitamento della felicità.
Il taoismo delle culture dell'Asia orientale ipotizza che le cose tendano a tornare al loro opposto. La felicità, intesa come successo o esperienza di fortuna e piacevolezza, tende ad essere quindi accompagnata e superata dall'infelicità e viceversa. Questo tema dialettico della felicità che tende a causare, o essere seguita, dalla tristezza sembra essere molto diffuso: in Corea esiste una convinzione culturale laica secondo cui se un individuo è felice nel presente, è probabile che lo sia meno nel futuro. In Iran ci sono dei detti che esprimono lo stesso concetto: “il pianto verrà dopo aver riso”, “abbiamo riso molto, poi verremo ai suoi danni”, “la risata forte risveglia la tristezza”. Anche in occidente esistono dei proverbi simili: “la felicità e un vaso di vetro si frantumano più facilmente”, “il dolore non arriva mai troppo tardi e la felicità vola troppo velocemente”, “dopo la felicità, arriva una caduta”, “ciò che sale deve scendere”. Epicuro avvertì che i piaceri intensi devono essere evitati perché possono provocare dolorosi desideri insoddisfatti.
Se poi la felicità è al livello massimo viene temuta ancora di più: nella cultura giapponese si pensa che l'estrema felicità, o buona fortuna, porti alla sofferenza. Un proverbio cinese recita: “l'estrema felicità genera tragedia”. Nella cultura occidentale alcune ricerche su studenti tedeschi hanno confermato la stessa dicotomia: le persone credono che un'intensa felicità possa portare all'infelicità.
Da un punto di vista religioso il cristianesimo tradizionale crede che per non allontanarsi da Dio la felicità deve essere accompagnata dalla salvezza e dalla grazia; per i cristiani medievali il pericolo della felicità si annidava più nella possibilità che portasse alla dannazione eterna che in qualsiasi sofferenza nella vita. L'Islam è critico nei confronti delle persone che sono percepite come molto felici. Il profeta Maometto recita: “se tu sapessi quello che so, rideresti poco e piangeresti molto”, “evita di ridere molto, perché molte risate attutiscono il cuore”; nelle culture islamiche, la vera felicità è considerata una pace interiore derivata dalla devozione a Dio. In un contesto buddista il perseguimento della felicità personale è visto come fuorviante, i buddisti tendono a sostenere che la ristretta ricerca della felicità può portare a stati mentali come crudeltà, violenza, orgoglio e avidità, e quindi avere conseguenze negative per chi persegue la felicità personale e coloro che lo circondano.
Rispetto alla creatività la felicità sembrerebbe essere una condizione ostativa: un mito culturale ritrae le persone infelici come più creative. Edvard Munch, l'autore del famoso dipinto “L'urlo”, alla domanda del come mai non avesse fatto nulla per i suoi disturbi emotivi, ha risposto: “Fanno parte di me e della mia arte. Sono indistinguibili da me e distruggerebbe la mia arte. Voglio mantenere quelle sofferenze”.
Anche l’espressione della felicità cambia in base alle culture, nelle culture occidentali la felicità viene espressa con dichiarazioni verbali esplicite, comportamento eccitato ed estroverso, e abbondanti sorrisi e risate. Nelle culture orientali invece esprimere felicità o mostrare esteriormente il successo non viene apprezzato perché può suscitare invidia, e questo provoca in chi la esprime sentimenti negativi di colpa e disarmonia. Uno studio ha rivelato che la preoccupazione degli asiatici orientali per le conseguenze interpersonali delle loro azioni, come causare infelicità negli altri esprimendo felicità, rende agrodolci quelle che probabilmente sarebbero esperienze positive per gli occidentali.
La capacità di perseguire la propria felicità e provare piacere sembra dipendere non solo dalle inclinazioni della persona e dai suoi meccanismi psicologici ma anche dalla cultura di riferimento. Forse è impossibile trovare una cultura in cui sia completamente assente la paura della felicità. La felicità fa accadere cose brutte: può rendere infelici, egoisti, incuranti, superficiali, compiacenti, noiosi, o può rendere infelici gli altri, perché ignoriamo le loro difficoltà, o li rendiamo invidiosi.
Quando la paura di essere felici diventa un disturbo viene definita cherofobia, la parola ha un’etimologia greca e deriva da kairós “ciò che rallegra” e fóbos “paura”, il significato è quindi letteralmente “avere paura di essere felici”. Chi soffre di cherofobia evita le emozioni positive perché teme che il meccanismo che gli porta felicità possa smettere di funzionare e possa volgere al negativo portando infelicità.
La frase tipica del cherofobico potrebbe essere quella celebre formulata da Charlie Brown: “ho paura di essere felice, perché ogni volta che lo sono tutto finisce”. Questo convincimento può diventare una sorta di profezia che si auto-avvera, una sorta di predizione negativa per cui se si vive una grande felicità, dietro l’angolo c’è una tragedia. Per questo motivo la persona si difende dalla felicità, la teme tanto quanto l’infelicità. Infatti chi soffre di questo disturbo non cerca dolore o sensazioni di tristezza, resta invece in uno stato di costante apatia, così da non essere soggetto a sbalzi d’umore e repentine modifiche del proprio stato.
La psichiatra Carrie Barron afferma che questo tipo di disturbo potrebbe avere origine nell’infanzia, potrebbe generarsi nel momento in cui il bambino, dopo un momento di felicità molto forte, sia stato poi punito o abbia subito un trauma che gli abbia generato una forte infelicità. In questo modo la persona avrebbe legato la grande felicità a un’infelicità molto pronunciata e quindi avrebbe cercato di evitare la prima, come se fosse causa della seconda.
I sintomi più comuni di cherofobia sono:
• Preoccupazione
• Ansia anticipatoria al momento di essere invitati ad un’occasione o al pensare a un futuro gioioso
• Comportamenti di evitamento, come rifiutare occasioni che apporterebbero cambiamenti positivi (come una promozione sul lavoro) o che implicherebbero divertimento (come un concerto o una festa).
Se questo tipo di atteggiamento diventa così solido da governare le scelte ed invadere tutti gli aspetti della vita allora rivolgersi a uno psicoterapeuta può diventare la strada per avere un alleato in un percorso di miglioramento. Ricorrere ad un aiuto esterno è già il primo passo per uscire dal vortice della paura.
Per approfondimenti:
Joshanloo, M., Weijers, D. “Aversion to Happiness Across Cultures: A Review of Where and Why People are Averse to Happiness.” Journal of Happiness Studies 2014.
Lu, L., & Gilmour, R. (2006). Culture and conceptions of happiness: Individual oriented and social oriented swb. Journal of Happiness Studies.