La sindrome di Calimero, dall’evitamento al vittimismo patologico
L’evitamento è un comportamento adattivo che nasce per permettere di allontanarsi da una situazione di pericolo o di minaccia reale aderendo a un segnale di salute e di equilibrio nella reazione fisiologica. Ma se diventa limitante per le possibilità di esplorazione allora perde il suo valore adattivo e diventa un meccanismo di difesa messo in atto di fronte a qualsiasi minaccia, reale o immaginaria, che produce una reazione di allarme nell’individuo: la risposta diventa evitare il confronto e scappare.
Laddove è importante togliersi dalla traiettoria di un fattore di rischio che può risultare pericoloso per il nostro organismo, quindi non accettare la presenza nella propria vita di una persona aggressiva, oppure non aderire a richieste che sono contro la nostra natura, quando questa abilità viene esasperata al punto tale che il soggetto percepisce un vantaggio ogni volta che si sottrae da una situazione, si mette in atto la strategia che in termini psicologici viene definita evitamento, che risulta comoda e rassicurante, non espone a rischi e non è suscettibile di errore. Si ottiene così una breve pausa dai sensi di colpa e dalla percezione dell’errore.
Quando l’evitamento è cronico diventa vittimismo. Il vittimismo è un modo di essere e di fare che danneggia la propria vita, è come una lente deformante che porta a vedere sé stessi perseguitati dalla malasorte e dagli eventi negativi. Calimero, il celebre pennuto del carosello che si lamentava della sua sfortuna, incarna questo atteggiamento; la sua frase più celebre recitava: “Eh, che maniere! Qui fanno sempre così, perché loro sono grandi e io sono piccolo e nero… è un’ingiustizia però”.
La sindrome di Calimero è la tendenza all’autocommiserazione, la sensazione di essere incompresi da tutti e di essere sfortunati in tutto. A un livello profondo, dietro a questo vittimismo si nascondono forti insicurezze e mancanza di fiducia. Chi ne soffre tende a svalutarsi molto, ha una visione negativa di sé e rivolge tutte le lamentele a sé stesso. La persona che ha questo atteggiamento si crede speciale a suo modo, è al centro di un mondo crudele e ingiusto in cui il problema più grande è accaduto proprio a lui vittima degli eventi. La responsabilità di quello che rende infelici è attribuita a forze esterne ingovernabili e imprevedibili. Emerge un lacerante senso di impotenza dovuto al pensiero decisivo è che una cosa impossibile da raggiungere sia invece possibile per gli altri, l’autostima crolla.
Quello del vittimismo è un approccio alla vita frustrante, perché si tratta di uno sguardo allenato a vedere unicamente la difficoltà. La persona rinuncia a crescere e crede che gli altri debbano occuparsi di lui. Attraverso una strategia di adattamento chi si sente una vittima si comporta come Calimero per ottenere protezione e affetto facendo leva sul senso di accudimento di chi gli sta accanto. La vittima, che non è riuscita a farsi amare come avrebbe desiderato, cerca sempre di ottenere un livello di attenzione tale da compensare il suo “fabbisogno energetico” sempre in negativo. Tipicamente queste persone esordiscono dicendo «Ti rubo un attimo» o «Scusa se ti disturbo» o piangono per una situazione di disagio, ma appena si cerca di aiutarle a risolverla fornendo loro le competenze adeguate, dicono «Fai tu, perché io non sono capace»; successivamente reiterano tale comportamento al presentarsi di una nuova difficoltà.
Freud ne parlava negli anni Venti in termini di vantaggio secondario: si tratta di persone che con le loro abilità non riescono a ottenere ciò che vogliono, ma non intendono impegnarsi a capire come fare, per ignoranza, paura o pigrizia. Se la vittima si struttura e si identifica con questo ruolo, mette in atto una forma di consolazione errata, una sorta di gioco di dipendenze, non certo di aiuto alla crescita.
Se questo tipo di atteggiamento è momentaneo, dovuto esclusivamente a circostanze avverse di vita, alcune strategie possono tornare utili per uscirne: diventare consapevoli delle proprie reazioni alle situazioni negative, allenare la resistenza; modificare il linguaggio usando affermazioni positive per uscire dalla spirale di negatività; cominciare a prendersi la responsabilità invece di dare la colpa all’esterno; fare attività fisica per scaricare la tensione. Se l’atteggiamento invece diventa così solido da perderne la consapevolezza e la spirale di mancanza di fiducia, autocommiserazione e vittimismo patologico invade tutti gli aspetti della vita allora rivolgersi a uno psicoterapeuta diventa la strada per avere un alleato in un percorso di miglioramento. Il Carosello ci ricorda che Calimero non è nero ma è solo sporco, allo stesso modo cambiando sguardo sulle cose, togliendo le lenti oscuranti, se cominciamo a prenderci la responsabilità del nostro benessere qualcosa di diverso può succedere.
Per approfondimenti:
Cristina Aguzzoli, Anna Maria De Santi “100 domande sulla gestione dello stress” 2018
Saverio Tomasella, “La sindrome di Calimero” 2018